La pittura è una finestra aperta sui miei sogni...
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Enrica Melotti: corpi nel tempo.
Il mondo di Enrica Melotti è fatto di cose semplici e concrete: la natura, il paesaggio, l’uomo e l’arte, nella tradizione e nella attualità della ricerca. In tale concretezza e semplicità scorre una vena creativa sotterranea e viva che è in continua crescita e sviluppo.
Enrica Melotti vive e lavora a Carpi. In lei sopravvive e serpeggia, come in una segreta e intima officina, l’assiduo lavoro, l’inquieta disciplina del disegno come stile di vita, privilegiato mezzo di ricerca di senso. E nel corpo maschile, nel nudo, oggetto della sua indagine da più di un trentennio, la Melotti continua a sondare e verificare nessi, nell’ordito di un torso, in un sopracciglio, in un lampo di sguardo. La seduta del modello, in breve, si tramuta da una situazione accademica a un campo di forze obbligato, una concentrazione coatta di scambi mentali, una combinazione di traiettorie che trovano nella rappresentazione del corpo una probabile soluzione intermedia, per approdare, a discapito di un esito apparentemente classicista e purista, in una dimensione forse non prevista originariamente, che concerne l'idea del corpo adolescente, le sue imperfezioni, l’obliquità e l’ambiguità dei gesti, benché stretti da una posa dichiaratamente prosaica.
Enrica Melotti ha alle spalle una storia umile, come il suo ricco mondo, eppure emblematica di una passione quasi totalizzante che ha finito per assorbire completamente i suoi sforzi. Suo padre, un uomo dai mille interessi, nella musica e nell’arte, la portava, poco più che bambina, alla Scuola del Disegno di Carpi a respirare l’aria delle aule della nota istituzione cittadina, che l’accolse nel 1957 tra gli allievi di Ivo Voltolini, tra i quali anche Renzo Dotti, tuttora caro amico della pittrice e a lei affine nella ricerca. Per comprendere i motivi dell’elezione del disegno a mezzo privilegiato, non si può prescindere dal contesto storico locale entro cui l’opzione dell’artista ha avuto modo di esplicarsi in questi anni e che sarà alla base delle scelte future. La formazione presso Voltolini, infatti, impresse sulla Melotti una matrice così forte, da determinare l’unica strada percorsa e percorribile nel panorama artistico carpigiano: quella della concentrazione sul nudo dal vero, sulla natura morta e sul paesaggio.
La scuola di Disegno di Carpi rappresentava, in effetti, la continuità della tradizione ottocentesca legata al disegno: si copiavano prima i gessi (di cui la Scuola possedeva una raccolta non indifferente), poi si passava al modello, spesso mediante il ritratto del volto a matita, sanguigna, carboncino e infine, come ultimo approdo, dopo una serie di disegni preliminari, si poteva aspirare alla composizione a olio su tela, solo nei tre generi consacrati del ritratto, natura morta o, al limite, paesaggio.
Tale prospettiva di stampo accademico e didattico trovava nell’insegnamento di Voltolini un particolare terreno fertile: allievo a sua volta di Orfeo Messori, ancora in giovane età, e continuatore di una tecnica e un approccio ottocenteschi, grazie alla sua formazione all’Accademia di Belle Arti di Firenze, ebbe un singolare rapporto con Felice Carena, che lo aprì a un recupero della tradizione della pittura e a un approfondimento dell’affresco, nel ritorno alla tecnica rinascimentale, in linea con l’arcaismo introiettivo dalle basi novecentiste, perdurante anche negli anni Quaranta in Italia. Un disegno degli anni Trenta, un Torso virile della carpigiana Lina Nicolini, pubblicato nella monografia di Paola Borsari (Insegnare l’arte. Dalla scuola del disegno (1840-1967) al Centro di Arti figurative, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 1998, p. 44), rappresenta un esempio di indagine anatomica sotto l’insegnamento di Messori, recepito in seguito da Voltolini, a sua volta trasmesso ai propri allievi e indica, oltretutto, la presenza femminile nella scuola e l’approccio coraggioso di un’artista al nudo maschile, che sembra precorrere l’attenzione della Melotti e indicare una tradizione.
Un tale purismo si mescolava, in Voltolini e in altri maestri del contesto carpigiano, con un’istanza fondamentalmente realista e un’attenzione alla tecnica da uomini dell’Ottocento (rivela Enrica, a testimonianza dell’anima alto-artigianale del maestro, che Voltolini si faceva prendere i colori in Inghilterra, metteva gli acquerelli più costosi a bagno per toglierne la colla, li polverizzava e vi sostituiva un collante da lui prodotto con olio, rosso d’uovo, acqua di rose, vino bianco di Marsala). Ed ecco i giovanissimi Melotti e Dotti, pupilli di Voltolini, comparire come modelli in una composizione di ampio respiro, un pannello decorativo oggi conservato alla Scuola Media “Alberto Pio” di Carpi, a sancire quel sodalizio artistico che si protrasse per Enrica all’incirca per un decennio, dal 1957 al 1966. Con la morte di Voltolini e la successiva chiusura della scuola, il felice e duro tirocinio presso il maestro ebbe per la Melotti sbocco nell’Istituto d’Arte di Firenze, dove venne in contatto con un ambiente nuovo e stimolante e con un interlocutore critico quale Carlo Del Bravo.
Nei primi anni Settanta Enrica frequenta l’Accademia di Belle Arti di Bologna, sotto il contestato magistero pittorico di Walter Lazzaro, di Paolo Manaresi per l’incisione e di Alessandro Parronchi per la storia dell’arte. In tale ambito culturale bolognese l’artista riscoprì Morandi, che aveva conosciuto già sotto il magistero di Voltolini, ma che forse non aveva ancora compreso nella dimensione filosofica, legata alla questione temporale e al rapporto con gli oggetti: di Morandi la Melotti ammira ancora oggi l’atteggiamento “proustiano”, che le appare l’esatto opposto dell’otticismo, quella tensione nei confronti dell’oggetto che permette il superamento della pura visibilità.
Nella seconda metà degli anni Sessanta, dopo l’approdo a Firenze e l’incontro decisivo con Carlo Del Bravo, Enrica aveva continuato a disegnare con nuovi orizzonti e prospettive mutate. Nel disegno dal vero, nel rapporto col modello, l’artista trovava una tensione psicologica nuova: perseguiva lo studio dei volti e dei ritratti, ma dava avvio a una propria ricerca sulla figura umana e sul nudo. Un raro Nudo femminile del 1969, a sanguigna, testimonia il nuovo sguardo, con un approccio che rivela la scoperta lenta dell’anatomia umana, come in una sorta di avvicinamento soave alla forma del corpo. Con il 1971 la Melotti inizia un percorso più mirato che la conduce a privilegiare, invece, il nudo maschile: una opzione “anticonformista”, come ha sostenuto Gilberto Zacchè, che rileva: “La scelta di questi soggetti, abbastanza inusuale per una pittrice, sia dovuta in primo luogo alle possibilità di resa strutturale ed estetica dell’anatomia maschile così come si è venuta definendo nella nostra civiltà” (Arte. I nudi di Enrica. Un classicismo rivissuto in chiave moderna, Gazzetta di Carpi”, 22 gennaio 1991, p. 8). Non sembra però che sia il gusto per l’antico, il classico, il purismo di linea ciò che interessa più direttamente alla Melotti. La sua opzione pare connessa al “corpo” in quanto tale, un corpo che sprigiona forma, vissuto come un oggetto speciale, pieno di imprevisti. Alle pose molli dei primi nudi e alla più chiara finitezza dell’immagine si affiancano, nei primi anni Settanta, studi in cui è solo una linea a definire l’oggetto, senza mezzi toni e senz’ombre, in una visione scarna, fino ai ritratti di adolescenti, che segnano una tappa nella sua ricerca: si nota, nei volti dei giovani del 1973, la capacità di penetrazione psicologica di un segno che non conclude la visione, ma lascia che il vuoto del foglio interferisca come luce diffusa e collabori, con il particolare dello sguardo, alla definizione del carattere, spesso timido e acerbo, a volte sfrontato o cupo. La Melotti fissa l'espressione con pochi tocchi, un carattere nella luce degli occhi, fino alle apparizioni del 1981, quando tracce di volti a sanguigna sono isolate in un grande spazio bianco, quasi studi neo-quattrocenteschi di volti angelici, mantegneschi.
Nella seconda metà degli anni Settanta, dopo il diploma in Accademia e i laboratori nelle scuole elementari, l’artista è promotrice della riattivazione della Scuola del Disegno, ora Centro di Arti Figurative, dove impartisce lezioni anche di storia dell’arte, proseguendo gli intenti di Voltolini di rifondare il disegno come arte e la pittura come espressione di cultura. In questi anni Enrica ha modo di chiarire a se stessa alcuni nessi, come ad esempio il rapporto con l’antico ma anche con il Novecento. Con David Hokney, autore particolarmente ammirato nella seconda metà del decennio e per tutti gli anni Ottanta, al quale la assimila anche la frammentarietà del segno, l’apparente incompiutezza della figura, la messa a fuoco di un attimo. Non è l’Hockney dai portati di natura mediale, derivanti da un immaginario Pop, quanto il pittore che mette a fuoco in pochi tratti una situazione, un tono, la freddezza di un comportamento.
Il disegno della Melotti non è mai finalizzato, non nasce dall'idea, ma è una sorta di work in progress: l’idea non esiste a priori, ma sorge da ripetuti confronti con il modello, dalla conoscenza lenta dei solchi, delle geografie di una mano, dei paradossi di un braccio o di un profilo. Nel suo approccio al nudo, Enrica riesce a fissare una registrazione tanto “naturale” e “semplice” da comprendere un’indagine esaustiva sul “mondo”. Ne è consapevole Giorgio Seveso quando scrive: “Il mondo, la natura, si riassumono, per lei, nelle fattezze umane: l’abbandono languido di un corpo, di uno sguardo di stanchezza o di attesa, l’eros che si intreccia al sentimento della morte. Tutto è lì, concretamente e riconoscibilmente presente, eppure tutto rimanda anche a situazioni, a emozioni, a dati esistenziali più universali” (Enrica Melotti. Studi di ragazzi, 1978-1980). L’artista ci avverte, infatti, che il modello può sostare fino a dieci sedute davanti al suo occhio, finché lei non abbia captato il senso recondito, “spirituale” di un muscolo, di un gesto. Si comprende allora come un tale atteggiamento, di quasi ossessiva contemplazione, sia il prodotto di un’esigenza intima di tensione lirica, che nelle trame del corpo umano maschile trova la sua estrinsecazione lenta e tortuosa, in base a una fenomenologia indiretta, rispetto, ad esempio ai paesaggi e alle nature morte che pure interessano l’artista a livello pittorico. Vi è chi, come Franco Loi, intravede persino, nella concretezza dei nudi, un senso di nostalgia per una naturalità perduta, l’ombra di una “scomparsa naturalità che è quasi un incubo”.
Emerge via via nelle sequenze e negli studi di nudi a sanguigna degli anni Settanta e Ottanta, condotti in base a una sostanziale continuità di ricerca, ininterrotta fino agli anni Novanta, uno “sguardo” che raffigura i modelli in pose classiche, in abbandono o in riposo, in meditazione o in sonno profondo, coll’intento di alludere a una naturalità fisica che è sempre esistita e che tuttavia appare sempre più lontana dagli orizzonti della società contemporanea. Si avverte, soprattutto nei nudi masacceschi, un senso di nostalgia perporto spontaneo e libero con il “corpo”, inteso come una sorta di opera d’arte vivente. Il senso di una naturalità che, a partire dagli anni Novanta, la stessa Melotti cercherà invano nei suoi modelli.
Cosa stava cambiando? Cosa è mutato nel frattempo? Notava, a suo tempo, Pier Paolo Pasolini che “la cultura produce dei codici; che i codici producono il comportamento; che il comportamento è un linguaggio; e che in un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato) il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza”. (Pier Paolo Pasolini, Il potere senza volto, “Corriere della Sera”, 24 giugno 1974) Se facessimo un’indagine antropologica attraverso gli sguardi e i corpi degli ultimi decenni ci accorgeremmo che la società e il mondo sono cambiati, forse più di quanto non abbia registrato allora la penna di Pasolini e in pochi anni, la stessa percezione del corpo si è attestata in un conformismo di atteggiamenti e di mode. Dagli anni Novanta, ad esempio, gli adolescenti e i giovani uomini non vogliono più spogliarsi di fronte allo sguardo indagatore dell’artista, costretta quindi ad apporre veli e drappi, a modificare le pose. Questo repentino mutamento antropologico del “soggetto”, che impone all’artista una registrazione dei cambiamenti, anche fisici, dei corpi e degli atteggiamenti di questi nuovi nudi “pudichi”, fornisce all’arte della Melotti lo spunto per una variante formale che comincia ad attestarsi nel 1996.
Mediante l’introduzione delle lumeggiature, prima assenti, che lambiscono e definiscono le luci sui corpi, i muscoli, i torsi, la Melotti non innesta solo nel disegno una matrice pittorica, ma sembra voler assolutizzare e sublimare sempre più la materia, la fisicità. Si percepisce, in queste serie della seconda metà del decennio, un tono metallico, quasi notturno, che attribuisce un’aura metafisica alla corporeità, a volte così “antica” nei nudi a sanguigna. Pertanto la sua arte, da sempre tesa, in ultima analisi, a un “assoluto” plastico e luministico, spesso attratta dalla stupefatta analisi di porzioni di corpo, di gesti, rivela negli ultimi esiti una vocazione all’Immateriale che, per un verso, denuncia la non materialità diffusa dei corpi del Duemila e, per un altro, il progressivo svuotamento di senso dovuto a un conformismo generalizzato alle fenomenologie del mediale, del leggero, dell’inconsistente. In tale prospettiva si comprende anche quella nostalgia per una naturalità umanizzata, che caratterizza gran parte della coeva produzione pittorica dell’artista, dove, secondo le parole di Massimo Carrà “l’assunto umanistico e i mezzi suggeriti dalla cultura dimostrano di sapersi risolvere con meno scorie nel volume in relazione allo spazio, nel tono che si fa forma nel suo involucro di aria e di luce” (M. Carrà, Lettera a Enrica Melotti, 18 aprile 1984).
- 2006 -
Paolo Campiglio
UN DIARIO CHE S’ALLARGA AL MONDO
L’ultima volta che ho scritto di lei dicevo che il modo espressivo di Enrica Melotti è fatto di una materia lirica rarefatta, leggerissima, come sospesa in un limbo di contemplazione senza tempo, in cui la pittura appare come un valore in sé, che snoda e intreccia vicende emotive appena accennate, ombre minime di racconto a sostenere, come una sottostante sinopia, le ragioni della composizione. Da quando la conosco, e sono ormai circa trent’anni, la linea distintiva di questo suo modo non è cambiata, non ha cercato adeguamenti o aggiornamenti alle tendenze artistiche di successo che si sono susseguite, mostrando una coerenza pittorica che è, per me, di natura fermamente interiore, più filosofica e contemplativa, verrebbe da dire “morandiana” proprio sotto il profilo della tenuta profonda dello sguardo e dell’immagine, che solo legata a questioni di gusto o di mera scelta linguistica.
In questi dipinti a olio e nei sottili disegni a sanguigna che li accompagnano, infatti, così come nei generi della figura e della natura morta che Enrica pratica da sempre, ogni posa, ogni scena, ogni inquadratura hanno il valore di narrazioni personali dell’occhio e del cuore, capaci come sono di riferire tenerezze e sensualità leggerissime, fragili ansietà e sentimenti sospesi nell’aria, quasi pagine di un diario intimo che subito s’allarga al mondo. Come per dare pelle, nel vivo dell’immagine contemplativa, alle ragioni autobiografiche di una sommessa istanza morale. Non sono davvero molti, oggi, gli artisti impegnati in un sentimento della pittura fatto di questa particolare, intima qualità lirica, di questa intensità delicata e insieme esigente. Fedele a se stessa, Enrica è per questo una pittrice appartata, lontana dai clamori e dai gesti eclatanti, dalle iperboli e dalle enfatizzazioni.
C’è nelle sue opere una sorta, come dire, di metafisica contemporanea, profondamente legata non tanto alla classicità distaccata e in fondo aristocratica dei fratelli De Chirico quanto, dicevo più sopra, alla pensosa contemplatività di un Morandi, a temi e motivi, emozioni e giudizi in un certo senso esistenzialistici, legati insomma a filo doppio alle circostanze dimesse del quotidiano, al suo domestico mistero, a una poesia che nasce delicatamente spremuta dalle cose e dai sentimenti che ti stanno attorno, che ti stanno semplicemente nella memoria e negli occhi. O, ancora, c’è come la deriva di un certo Novecento soft, una levigata compostezza “classica” appena increspata da ciò che appunto chiamavo mistero domestico: mistero di poesia e insieme di pittura, fragile e tenue ma non per questo meno fragrante e persuasivo...
E ciò si manifesta come per una sorta di gioco metaforico del cuore e dei sensi, di trasfigurazione appena accennata della realtà. Una trasfigurazione (verso una ponderosità, verso una concretezza di fondo del dipinto o del disegno) che viene a dire alla sensibilità del riguardante che non siamo appunto di fronte ad un gioco soltanto, che non siamo di fronte cioè a una ricerca di bellezza e di suggestione figurale gratuita, fine a se stessa. Che non siamo di fronte, allora, a un’operazione consolatoria o solo decorativa rispetto al mondo, bensì ci troviamo dinnanzi a un progetto di poesia: progetto che per la sua stessa natura costitutiva appare vulnerabile e precario ma, al tempo stesso, tanto più prezioso quanto più leggero, intimo, segreto.
Il suo lavoro, insomma, si svolge suggestivamente sul crinale di una verità interiore profondamente determinata, di un figurare che come oggetto più centrale e intimo ha l’insieme del vissuto emotivo dell’autrice e le sponde del suo fantasticare. Sarebbe però sbagliato e fuorviante vedere qui, come poetica complessiva, solo il semplice racconto di una sorta di “ingenuità” diaristica. In questi suoi motivi dominanti di mano, di cuore e d’occhio c’è, invece, una problematicità più articolata, fatta di una avvertita consapevolezza dei linguaggi e dei dispositivi espressivi più sofisticati della pittura contemporanea; e dunque di una assorta coscienza del moderno, che appunto riporta verso la dilatazione dell’individualità e del privato ogni prospettiva attendibile di conoscenza umana ed emozionale, allargandosi a metafore e allusività più universali.
Sono motivi che oggi vengono raggiungendo una maturità sempre più risolta, sempre più persuasiva, in cui alla contemplazione si aggiunge l’aggallamento di una sorta di trama narrativa più complessa, qualcosa per cui l’immagine lascia presagire una traccia aneddotica, un canovaccio, l’ombra di una storia da raccontare che conduce in qualche modo anche l’invenzione dei toni sentimentali attorno ai temi e ai soggetti. Il risultato è che la pittura, se guardiamo alle date più recenti, mostra oggi una sorta di maggiore densità tattile, una presenza scenica sensibilmente più corposa, quasi ispessita, maggiormente incarnata in un tuttotondo fatto di chiaroscuri, di velature, patine, flou e sfocature, ombre e luminescenze per i quali forma e contenuto si arricchiscono e si sospingono a vicenda.
Guardiamo l’efficace Autoritratto di quest’anno, guardiamo le “storie” narrate
da I due amici o da La lettera, anch’essi del 2005: siamo di fronte a una
maturazione che, senza contraddire né modificare in nulla il pregresso, ne
slarga oggi le conseguenze emotive fino a gentili seduzioni letterarie che
interrogano la fantasia dello spettatore, lo coinvolgono amabilmente in un rebus
allusivo di sentimenti e di emozioni da ricostruire.
- 2005 -
Giorgio Seveso
Presso il CLUB LA MERIDIANA, dal 22 maggio al 6 giugno 2004, sarà ospite la pittrice carpigiana Enrica Melotti con le sue opere più recenti (2000 –2004). Nature morte, nudi maschili e figure femminili sono i soggetti di olii e disegni che costituiscono l’intero corpo espositivo. Prassi oramai consolidata dell’artista è quella di riprendere i soggetti direttamente dal vero, dopo aver preparato in modo oculato il “set artistico”: nulla è però artificiale ed ostentato. La realtà è filtrata, trasfigurata dall’intimo sentire della Melotti, che la traspone sul supporto come particelle significanti di un’atmosfera.
Un ensemble di frammenti, disarcionati dalla quotidianità, che rimandano ad una dimensione atemporale, dove risultano perduti i riferimenti spazio-temporali. I soggetti vengono a galla da uno sfondo indefinito, ma corale, reso palpitante dalla mobilità delle luci. Davanti a noi si apre un mondo rassicurante e pacato, sublimato dalla percezione delicata della pittrice. Nature morte che mostrano ancora il loro vivo splendore; figure umane colte in pose di abbandono, i cui volti recano i segni di inflessioni malinconiche e assorte, rispettosamente restituite dal garbato procedere dell’artista. Una tecnica rigorosa, quella della Melotti, messa al servizio di una creazione poetica e onirica, in cui pare davvero difficile non chiedersi quali siano i pensieri di questi “attori protagonisti”, o meglio, quale sia il copione di piccoli attimi e sentimenti che Enrica ha proiettato su di loro e che si impastano alla materia pittorica.
“La Meridiana” – maggio 2004
Cristina Stefani
Personale di Enrica Melotti; al vernissage il maestro Treccani, amico ed estimatore dell' artista carpigiana
Quell'incredibile leggerezza dell'essere
La grazia dei suoi fiori non ha pari, la finezza delle sue figure cattura. Non c'e dubbio, Enrica Melotti ha un talento innato che la scuola ha migliorato e il lavoro ha reso importanti. Guardare le sue tele e domandarsi perché un'artista del genere non gode di una maggiore fama, è tutt'uno. La risposta non arriva: perché è una donna in un mondo ancora troppo maschilista non basta, perché vive in provincia dove non esistono grandi galleristi non soddisfa, eppure una, mille ragioni ci saranno. Ma tutto sommato non contano così tanto, ciò che è davvero importante è il valore della sua pittura: eccellente il tratteggio, ottimi i colori, incantevole la composizione. I quadri di Enrica sono lì eppure sono come sospesi, in un'atmosfera che è più dell'anima che delle cose vere, e forse proprio per questo le rappresentano nel modo migliore.
Dal 14 marzo all'11 aprile Melotti espone a Vaprio d'Adda all'associazione culturale Brambati Arte; all'inaugurazione della mostra lei era presente con Ernesto Treccani, grande artista e amico, da sempre. Nata a Carpi nel 1942, nel '56 si è iscritta alla Scuola di disegno del Voltolini dove è rimasta un decennio muovendo, come racconta lei stessa, "i primi passi nel solco tracciato dal maestro all'insegna di una pittura direttamente ispirata alla natura, lontana da costrizioni formali o contenutistiche". Poi Firenze dove Enrica Melotti ha frequentato l'Istituto d'Arte nel corso del maestro Grazzini; nel 1975 il diploma all' Accademia di Belle Arti di Bologna dove studia pittura e incisione con Paolo Manaresi e storia dell'arte con Alessandro Parronchi.
Ricorda che i suoi primi lavori sono stati prevalentemente nature morte o paesaggi, colti dal vero. Una visione semplificata della natura, le tinte azzurrine fanno pensare a una sua personale rivisitazione del grandissimo Giorgio Morandi. Che, evidentemente, mantiene un'influenza costante perché i suoi fiori rimandano immediatamente, pur nella diversità, a quelli del pittore bolognese, quasi che lei li avesse "rubati" dalle sue tele e li avesse innaffiati e innaffiati ancora, per ridare loro quella vita che Morandi gli aveva soffiato via, regalandoli all'immortalità. E' a Carpi che Melotti si accosta all'insegnamento; in parallelo il suo percorso pittorico si incentra sulla figura umana. E' così che inizia la sua ricerca, del tutto anticonvenzionale, sul nudo maschile; la persegue direttamente su modelli disegnati o dipinti dal vero, ma non solo ritratti nella loro fisicità. Artista, ma anche donna, Enrica Melotti, con lo spirito analitico tipicamente femminile, li indaga nella loro interiorità. Spesso vibrante in quel loro sentire quotidiano, che appartiene a tutti noi.
Nel 1978 l'artista apre il Centro di grafica, punto privilegiato per imparare, fare e fruire arte. Centro importante per i tanti studenti appassionati, ma anche per il ruolo di promozione artistica e culturale che svolge nel territorio. Contemporaneamente Melotti assume l'incarico di responsabile del Centro documentazione arti contemporanee del Comune di Carpi, ruolo ricoperto fino al 1984. Attualmente insegna ancora al Centro da lei fondato e al Corso di arte pittorica organizzato dal Comune di Soliera. Gli impegni non le impediscono di continuare a fare ciò che più ama, dipingere, e tante sono le mostre, personali o collettive, a cui partecipa. Intanto la sua pittura si è arricchita: le figure umane sono immerse in sfondi naturalistici e le citazioni letterarie si fanno più numerose. E' presente il Virgilio delle Bucoliche e le pagine di un libro sono spesso sfogliate dai suoi protagonisti. Fissati nella tela, eppure con lo sguardo verso un altrove che ci conduce, se solo lo vogliamo, nel mondo suggestivo delle emozioni. E le sue, sono un po' anche le nostre.
"Notizie" - 4 aprile 2004
Annalisa Bonaretti
Viaggio nell'uomo
Enrica Melotti affida la rivelazione del proprio sentire, della propria moralità a "ritratti" di giovani che, immersi nella lettura di un libro (Lara in giardino, Lo scialle rosa, L'angelo), ambiscono a privilegiare momenti di meditazione personale. L'artista carpigiana non smette di "perdersi" in questi personaggi che, in un'unità ideale con l'ambiente (giardino) in cui si sono ritagliati un loro spazio, affermano, fino alla solitudine, al silenzio, all'abbandono, all'inguaribile malinconia e all'esaltazione individuale, la loro scelta di vita.
A questa tematica dell'"humanitas", ricondotta ben dentro al concreto terreno della quotidianità, si adegua un operare vigilato, avvedutissimo che perviene, attraverso un linguaggio corposo, quasi fisico, di sentita potenza d'esecuzione, di impronta classica, ad aristocratiche e meticolose eleganze formali che fanno di ogni creatura un'espressione di perfezione, ma anche una concentrazione di trepidazioni interiori.
- 2003 -
Michele Fuoco
Per la mostra di Enrica Melotti alla Sala Gialla del Corso
Chissà se è vero che noi trascorriamo la prima parte della nostra vita a percepire il mondo intorno a noi, e la seconda a ricordare. Forse le cose non stanno proprio così, ma l'osservazione può ben servire da pretesto per avviare una riflessione. Col passare degli anni sembra che si perda interesse alle vicende quotidiane, alle cronache, a ciò che avviene fuori di noi, mentre aumenta il bisogno di silenzio, di non esser più bersagliati dalla profusione di nuove impressioni, si ha bisogno di volgere lo sguardo all'interno, di raccogliersi in se stessi come se si procedesse a sviluppare un negativo. Nemmeno questo, francamente, potrei garantire che valga per ciascuno.
Un amico mio carissimo soleva dire che non basta vivere la vita una volta sola, percettivamente. Bisogna imparare a darle spessore, rivivendola nel pensiero, riconoscendola riflessa nella propria anima, perché il nostro non è un mondo poveramente oggettivo, fatto di cose, ma un mondo soggettivo, fatto di cose sentimentalmente percepite. Sentimenti, speranze, timori misurano l'ora soggettiva del tempo. Rivivere la vita nel pensiero per separarla dalla crusca della quotidianità, per distillarne ciò che contiene di sognabilità (sono le nostre lanterne, spente magari, e celate sotto il pastrano, ma pur sempre lanterne, come raccontava Stevenson) e costruire con questo materiale metabolizzato paesaggi interiori, una verità soggettiva intorno alla quale l'identità personale, spogliandosi di ciò che è caduco ed effimero, si condensa sotto forma di identità culturale.
Mentre si ritirava dall'oggettività abbagliante del mondo, mi assicura quell'amico adusato da lungo tempo a vivere serenamente in compagnia della sua necessaria solitudine, accadeva un fenomeno sorprendente, come quando la notte, coricatosi, spegne la luce: a poco a poco un insospettato mondo crepuscolare emerge fluorescente dall’oscurità, simile alla cavità di un geode rivestito tutt'intorno di cristalli d'agata e quarzo ametistato. E se lo strofina con la carezza infedele del ricordo, comincia a scoprire quante microscopiche verità soggettive costituiscano un uomo. Al tocco leggero della bacchetta magica della sua capacità di stare con se stesso brillano dalle gallerie sotterranee pareti incastonate di smeraldi e berilli, di tormaline e di ambre, di corniole e lapislazzuli, di topazi e zaffiri, di asbesti, malachiti e azzurriti, che la vita immediata, dice, caotica, frettolosa, distratta, puramente percettiva, non lascia intravedere.
La mostra di Enrica Melotti ci si dischiude sulla memoria affettiva. Un ricordo che non è ricordo di fatti, di eventi esteriori, ma di momenti presenti a se stessi di una biografia sentimentale. Perciò, il visitatore che deciderà di salire i gradini del Club del Corso e di affacciarsi all'ingresso della Sala Gialla, non vada a cercare sulle tele e sui disegni che vi sono esposti improbabili corrispondenze o illecite somiglianze con realtà di percezione. Vada oltre, rifletta che sta posando il suo piede su un tappeto di sogno: ciò che ha davanti sono i passi di un'anima, incerta come lo sono necessariamente tutte le nostre anime umane, attraverso le aiuole del suo giardino interiore, in cui attese e speranze, ansie e paure, gioie ed offese, sapute o no, hanno guidato il pennello insieme all'esercizio e alla passione, insieme allo studio e alla costanza, hanno deciso i temi, scelto i colori e le luci e le ombre. Sono il dialogo che quell'anima ha intrattenuto con se stessa in istanti di vita intensificata.
Diceva Starobinski a proposito di Rousseau, che solo ciò che è rivissuto è del tutto significante. Il senso del segno, che al momento resta confuso, viene scoperto solo dalla memoria che supplisce ai limiti della percezione effettiva. In età avanzata Jean-Jacques aveva preso a erborizzare. Ma non era tanto l'interesse botanico che ve lo spingeva, quanto il fatto che la pianta conservata sulla pagina dell'erbario, il fiore disseccato, assurgevano alla dignità di segno che risveglia il paesaggio, la giornata, la luce, la placida solitudine della passeggiata durante la quale fu raccolto, gli rammentava l'ora, il giorno, la circostanza in cui l'aveva incontrata. Momenti di consapevolezza, di piena presenza a se stesso nell'espandersi del sentimento. Il fiore disseccato, come il fiore dipinto (roselline, giacinti, fiori di melo) o la figura disegnata a sanguigna e matita bianca su cartoncino diventano allora le pagine di un diario interiore. E come tali vanno letti e interpretati.
Concludo. E quale migliore chiusura di questa presentazione che non è una presentazione, ma semplicemente un invito ad accostarsi alla mostra di Enrica Melotti con la corretta disposizione d'animo e d'intelletto, che riandare a pagine di lettura insuperabili per chiarezza e bellezza, a pagine fondamentali che rimangon dentro e ti accompagnano, tenendoti quasi per mano, nell'incessante faticoso tentativo di dare un significato all'esistenza. «Mi ero reso conto», ha lasciato scritto Marcel Proust, «che soltanto la percezione grossolana e fallace colloca tutto nell'oggetto, mentre tutto è nello spirito». E' una contraddizione «cercare nella realtà i quadri della memoria, ai quali mancherebbe sempre l'incanto che proviene loro dalla memoria stessa e dal non essere percepiti dai sensi». «A certi spiriti amanti del mistero piace credere che gli oggetti conservino qualcosa degli occhi che li hanno guardati [...] Gli è che le cose, - un libro sotto la sua copertina rossa, come le altre, - appena son percepite da noi, diventano in noi qualcosa d'immateriale, della stessa natura di tutte le nostre inquietudini o sensazioni di quel tempo, e si mescolano indissolubilmente a esse. Un certo nome letto un giorno in un libro contiene nelle sue sillabe il vento rapido e il sole splendente di quando lo leggevamo. Dimodoché la letteratura che si accontenta di "descrivere le cose" è quella che, pur chiamandosi realistica, è più lontana dalla realtà, quella che più ci immiserisce e intristisce, giacché taglia bruscamente ogni comunicazione del nostro "io" presente col passato, di cui le cose conservano l'essenza, e con l'avvenire, dov'esse ci stimolano a goderlo di nuovo. Quest'essenza è ciò che l'arte degna del nome deve esprimere [...] Non basta: un oggetto da noi veduto in un certo momento, un libro da noi letto, non restano uniti per sempre soltanto a ciò ch'era intorno a noi; resta unito altrettanto fedelmente a quel che noi eravamo allora, non può più esser rivissuto se non dalla nostra sensibilità, dalla nostra persona di allora. Se, nella biblioteca, io riprendo, sia pur soltanto col pensiero, François le Champi, immediatamente si leva in me un fanciullo che prende il mio posto, [...] e che lo legge come lo lesse allora, con la medesima sensazione del tempo che faceva in giardino, le medesime fantasticherie di allora [...] le medesime angosce circa il domani».
- Ottobre 2000 -
Alberto Meschiari
Nel mondo della figurazione Enrica Melotti è riuscita a trasformare con straordinaria intensità e in maniera inspiegabile, quasi misteriosa, scene assolutamente banali in un universo incantato e squisitamente personale dal quale riesce a staccarsi grazie ad una sorta di filtro, quasi osservasse le scene attraverso un vetro. La Melotti isola sapientemente ciò che vuole riprodurre dalla sua soggettività di artefice: la pittrice diventa, contemporaneamente, una professionista fredda e lucida ed una artista travolta dalla propria sensibilità, completamente abbandonata alla tenerezza che in lei suscita il mondo che sta creando. Sempre consapevole e distaccata, rimane l'unico osservatore diretto e l'unico interprete di quel mondo che ci comunica e ci fa conoscere attraverso i suoi dipinti. Il suo lavoro è un inno al trionfo dell'uomo e della natura nei suoi più piccoli particolari, alla tenera dolcezza dei corpi giovani, all'innocenza non più completamente inconsapevoli, alla sensualità quasi presagita e già presente, ma ancora irraggiungibile perché protetta dalla purezza della adolescenza.
Con la medesima sottile intensità l'artista tratta il tema della natura morta: le composizioni di frutta e di fiori vengono risolte con lo stesso tenero erotismo dei nudi maschili, lo stesso amore e lo stesso rispetto. Nelle sue opere c'è una segreta e profonda nostalgia del tempo che fugge, testimoniata dalla necessità di fissare l'attenzione su di un particolare della composizione (che a ben vedere è già essa stessa una porzione dell'intero paesaggio) quasi a non voler farsi sfuggire ogni più piccola variazione cromatica e materica realizzandola velocemente sulla tela senza però perderne il senso. Ogni sua opera è infatti un accumulo di particolari, tutti singolarmente dotati di una importanza essenziale, per fissare un istante fugace e renderlo immortale.
Per la Melotti la scelta della natura morta, piuttosto della visione paesaggistica, è arrivata dopo anni di lavoro, per una necessità di sintesi, di maggior concentrazione tanto da prestare, a volte, attenzione anche ad un solo frutto, ai suoi colori, alla sua forma tralasciando l'intera composizione; il resto può rimanere appena abbozzato. Le immagini sono esempi a testimonianza del suo talento nel ridurre all'essenziale, con sicura sensibilità, gli elementi rilevanti di un paesaggio; esempi che rivelano la sua maestria nell'esprimersi con la massima semplicità. Ogni opera che la Melotti propone è una sorpresa perché dipende dalla luce, dai colori e dalle forme nello spazio, elementi a cui occorre dare una inquadratura, privilegiando una zona o l'altra. E' come se lavorasse su una tela già dipinta alla quale metterà la propria cornice per dare ordine a ciò che già esiste. Ogni sfumatura è importante al fine di rafforzare o indebolire una composizione. Per questo la funzione del ragazzo o della frutta si rivela profondamente diversa da come noi intendiamo: indispensabili e secondari al tempo stesso, divengono gli elementi che grazie alla loro presenza esplicita o velata sono in grado di cristallizzare una particolare atmosfera.
In quanto artista autentica sfugge al rischio dell'usura e della ripetitività: il suo talento reale unico ed inimitabile elude le oscillazioni del gusto e delle mode. Esistono un modo visivo (personale) ed un modo letterario (accademico) di pensare e di vedere. Per molto tempo il letterario ha dominato il visivo e ancora oggi i nostri occhi sono abituati a vedere in termini verbali. Con le opere di Enrica Melotti, per quanto possibile, le immagini riescono a parlare col loro linguaggio.
- Agosto 1996 -
Lorena Corradini
In arte ogni castità è impotenza (Arturo Martini)
Il concentrarsi di Enrica Melotti sulla rappresentazione degli stessi temi non è indice di una fissazione quanto di un percorso, che è ricerca capace di condurre in ogni singola opera a una sintesi. Sintesi di visione, di modalità di sguardo rivolto alla storia dell'arte, al passato e insieme alla propria interiore necessità di cogliere nell'armonia di un corpo, nello svolgimento muto di una corolla di petali, una legge universale di superiore bellezza. Comunque sia l'arte di Enrica Melotti è pittura che dà forma e sostanza a persone, a oggetti, a cose animate e inanimate del naturale restituendone nella linea e nel colore l'essenza.
Le sue nature morte sono turgide di vita, isolate da un contesto ambientale esigono che lo sguardo indugi su un vassoio di frutta, su un mazzolino di rose bianche o di pervinche ed è mediante la risonanza del colore che le forme appaiono, disvelano nella rotondità di una pesca o di una mela la loro riduzione alle figure primarie della geometria che tutto apparenta in natura, pur essendo astrazioni della mente, sistema che l'uomo adotta per assoggettare a sé l'esistente. Ora l'ascendenza di queste composizioni di nature morte alla lezione cézanniana, e attraverso questa a quella morandiana, non è estranea al recupero della fonte dell'antico, dalla cultura classica e ellenistica a quella rinascimentale, funzionale per Enrica Melotti alla messa in posa accademica di giovani modelli.
I volti sono dei ritratti, portano quindi i segni del vissuto individuale ma lo sguardo sfuggente, gli occhi abbassati, il posare spogliati dei propri abiti storici, conduce a una diversa regione che è quella del confronto con mito e al recupero di una bellezza incontaminata che è, o vorrebbe essere, recupero della classicità. Esattamente ciò che Cézanne, Morandi e anche Arturo Martini perseguono fissando delle cose la fenomenologia dell'apparire e dell'essere, cioè dell'esistere. In queste opere la sodezza della forma, la plasticità dei corpi, la luce funzionale a tornire col chiaroscuro i volumi e a definire i piani, sono elementi che concorrono a localizzare l'attenzione sui nudo, sul corpo, materia da plasmare col colore, da scalfire con la linea.
Questi nudi di ragazzi, mollemente abbandonati nella fragranza della loro giovane carne, sono insieme degli Adamo e degli Apollo, uomini-dei che si destano alla loro coscienza e alla consapevole pesantezza della materia greve del corpo in cui però alita un'anima. L’Apollo del maestro del frontone di Olimpia, gli schiavi morenti di Michelangelo, l'Aurora e la Notte delle Cappelle Medicee, l'Adamo addormentato - incosciente che dalla propria costola Eva viene chiamata alla vita del Padre - nella volta della Cappella Sistina, sono referenti alla pittura di Enrica Melotti che combina la cultura accademica e la tradizione figurativa del nudo con le fonti artistiche della scultura del primo Novecento. Ciò è evidente nella positura del ragazzo che si copre il viso con le mani, quale citazione del Bevitore del 1926 di Arturo Martini, ma anche nella trattazione delle figure a piani larghi per esaltarne la plasticità. Si tratta in effetti di insistere, mediante la memoria visiva dell'arte, su un unico interesse che è quello di dar forma alla forma, facendo della pittura la via e lo strumento di relazione tra il mondo della vita e il mondo sublimato che quella vita coglie nell'interezza, cioè quello della dimensione estetica.
Il percorso artistico intrapreso dal 1976 a oggi da Enrica Melotti, oltre che di fedeltà a se stessa, è scandito da modi diversi eppure affini di trattare la figura umana. All'inizio i corpi giacenti, dalla linea di contorno dissimulata, si integrano allo sfondo, non c'è ancora definizione anatomica, come se quella carne attendesse d'essere ridestata alla vita e alla coscienza di sé. Dal 1978-79 si assiste a una maggiore concentrazione suI modello, la figura si staglia sui bianco della tela, eppure basta una minima definizione di piano perché si possa leggere il dislocarsi in profondità del soggetto. La pennellata si fa più mossa e una sorta di tratteggio largo serve a portare le ombre, a definire i visi, a dettare la fisicità del soggetto in posa, generando una sospensione temporale e spaziale che colloca la figura fuori dalla storia. Questa entrerà invece piano e poi sempre più prepotentemente nel quadro quando, a partire dal 1990-91, Enrica Melotti abbandonerà la sospensione del mito per introdurre gesti, azioni del quotidiano, ritraendo giovani che leggono o che si sono addormentati col capo reclinato sui tavolo, sorpresi dal sonno durante la lettura. Il torso nudo esce da un alone grigio sfilacciato, mentre le gambe sono appena sbozzate, ma l'immagine si è condensata e lì resta pur nell'indefinitezza dell'evento.
I recenti lavori del '93 guadagnano ancora lo spazio del vissuto presentando ragazzi dai visi e dai corpi bruniti, la solarità classica ha lasciato il posto all'ombra del vissuto e della storia individuale che si intravvede nello sguardo che reca il segno ora di una diversa assenza e distanza.
Apollo è sceso dall'Olimpo, si mescola agli umani: anche Adamo si sta
ridestando, dovrà abbandonare il suo rifugio, lo sguardo fisso e vuoto si
spalanca sulla vita e sulla storia che l'attende e di cui ha paura; vita che
attende pure un gesto, una parola significante che egli invece per il momento
non è in grado di pronunciare. - 7 giugno 1993 -
Renata Casarin
"Quae tibi, quae tali reddam pro carmine dona?" dice Mopsus a Menalcas nella quinta egloga. La poesia non può avere altro sogno che se stessa, eternamente la riproposta di una purezza e di un infinito ricreare il mondo. Così l'arte.
Certo l'intatta natura, la già violata natura, attraverso il canto di Virgilio persino tra gli orrori della matta bestialità e le infelici conseguenze delle guerre, mentre l'arte di Enrica Melotti sembra un anacronismo, un sogno inattuale: la natura, già immersa in una pace per cui il poeta può rendere grazie agli dei - e da sempre l'arcadia è l'aspetto rassicurante della sua crudeltà - è oggi invece solo matrigna e inquietante: l'uomo ha portato i suoi orrori persino tra le cose più semplici, tra gli elementi primi, nel cuore dell'arcadia. Eppure l'arte conserva intatto il sogno delle origini.
"Quali, quali doni ti darò per una canzone come questa?" Non c'è dono che possa eguagliare la poesia. E fin dalla cacciata l'umanità conserva la nostalgia del giardino di Dio. La Melotti, che vive nelle campagne di una odierna Emilia opulenta mo contaminata e avvelenata, tenta ricostruire un idillio: uomini erculei e sani in un paesaggio, tra frutti e arbusti ancora puri, ma più spesso su fondali vuoti. Ciò che attrae l'artista è la presenza corporea, quasi scultorea dell'uomo. Il sogno, la canzone, si libera appunto nell'evocazione del paesaggio, l'angoscia traspare invece nei fondali silenti. "Titiro, in tuo riposo alla grande ombra del faggio/la silvana poesia cerchi sul tenue flauto ... ".
Ma qui l'ingombro dei corpi è come un'ossessione persino all’"ombra del faggio" e sembra portare i segni di una scomparsa naturalità che è quasi un incubo. Anche se l'artista, come il poeta, non può rinunciare ai suoi doni, forse divenuti grido, o forse soltanto memoria di una antica canzone. Non più il suono del flauto ma l'eco dei propri preoccupati pensieri sembra accompagnare forme attorniate dal nulla o dall'artificio, vestigia di una naturale bellezza. Stupisce semmai ci sia ancora un'acqua a riflettere il volto di Narciso, o un luogo ove posare il corpo stanco tra tanta devastazione.
- giugno 1990 -
Franco Loi
Nota per Enrica Melotti
Occupandomi brevemente del lavoro pittorico di Enrica Melotti, anni fa avevo puntato la mia attenzione special mente sui quadri di figura dove mi sembrava di cogliere un più realizzato rapporto fra l'istintiva vocazione tonale, un tono carico di sonorità luminose, e i valori formali costituenti l'immagine. E' un'opinione che credo di poter confermare oggi di fronte alla nuova serie di opere che la Melotti ci propone alle pareti di «Corrente». Perché questi anni trascorsi in silenzio hanno portato buoni frutti in direzione di una maggiore esperienza compositiva, di un più complesso articolarsi di masse e volumi, insomma di impianti struttivi in funzione dell'unità dell'immagine. Risultati assai spesso raggiunti senza perdere in naturalezza e semplicità, che sono due doti native della pittrice capaci di salvaguardarla da compiacenze accademiche.
Anche ora il punto di partenza della Melotti sta in una vigorosa adesione al dato oggettivo e alla compresente emozione che l'incontro col reale provoca in lei: la figura umana, dicevo, ma anche certi scorci; paesistici o certe nature morte di fiori o di frutti. E tuttavia, anche dove la soluzione realistica è più esplicita nella sua immediatezza terrena, impulso emotivo e fantasia lì si sentono fermentare in un segno, in un inatteso gioco tonale. Si direbbe allora che la Melotti cerchi per questa via e con questi strumenti di interpretare, per immagini, problemi, circostanze, e aspetti del tempo e dell'esistenza come lei sinceramente li sente. Un modo, voglio dire, di scoprire a poco a poco ciò che di nuovo può esserci nella parola anche la più ripetuta: un nuovo che, nonostante le apparenze contrarie, è vitale e riesce a confondersi nell'amore per le cose che in natura ci circondano, uomo compreso.
Io credo che la Melotti debba amarla davvero la realtà naturale, tutta la realtà, come debba amare il suo modo di tradurla in pittura, nel suo esistere per semplice trama di forme, luci, colori, materia: i soli mezzi a lei congeniali per rendere comunicabili senza artifici o raggiri le immagini che il mondo le offre. Pittura, dunque, come riscoperta di motivi di amore e di vita: sentimenti che si traducono in contemplazione attiva, venata qua e là di melanconia, trasmessa a noi con sobrietà e intelligente umiltà.
Novembre 1986
Massimo Carrà
Una pittura che ha il senso della intelligenza più presente e consapevole di una generazione: quella che muoveva i primi passi in una Emilia ancora in gran parte contadina, subito dopo la Liberazione, che recepì l'atmosfera di valori ideali che percorrevano un mondo in cui lavoro poteva ancora significare volontà di riscatto sociale e di dignità solidale. Non piagnistei e rinuncia, ma forza di rinnovamento sul filo di una tradizione ben riconosciuta nelle sue luci.
Mirando avanti si avrebbe voluto liberare quei valori dalle scorie di pregiudizi e ignoranze ancestrali, senza mai dubbi di impotenza, per farne il principio di lotte quotidiane, che passavano attraverso l’affermazione di una grande onestà morale e politica e di un radicato concetto di democrazia. Il sogno dell’equilibrio possibile, dell'armonia possibile tra l'intelligenza e la natura nella storia. Tinte pastello, sogno di una quiete dell'animo nella serenità sgombra da ricatti ed astuzie, da ipocrisie ed inganni, di una intelligenza trionfante di ogni sporcizia camuffata da arte di governo.
Sulla tela il dominio della politica, intesa come consapevolezza e democrazia e dialogo instancabile, come capacità e confronto propositivo dl realizzazioni tangibili e non imposizione di furbesche demagogie. Sono di un mondo in cui biancospini e pupille e le membra ed il cuore e il cervello e questo cielo e l’ombra calda sui muri potessero restare tali. Non è mai stata la ragione o il sentimento a farci paura, né veramente le deviazioni da norme che riconoscevamo perfettibili, ma il fariseismo prezzolato e la tartufferie elevati a morale dai governanti. Non si può dipingere senza l'idea o il sogno del mondo!
- Carpi, 1984 -
Alberto Meschiari
Guardando i quadri di Enrica Melotti dove la lievità della figurazione diventa discorso poetico m’è venuta in mente una precisazione di Ernesto Treccani sulla continuità della pittura e quindi sui rapporto di generazione che unisce gli artisti quando siano autentici, ieri come oggi. Questione di responsabilità: di consapevolezza, di coscienza di una immagine di sé e del proprio operare e del tempo che si identifica nell'opera e nella ricerca. E. Treccani in questo senso è un testimone di responsabilità intellettuale e artistica, dal tempo di «Corrente» ad oggi.
Cosi quando ha fatto preciso riferimento ad Enrica e alla sua pittura in occasione della mostra «Da Corrente ad oggi», quella continuità è stata anche un richiamo all'impegno che in stagioni diverse gli artisti sanno esprimere. E di impegno si tratta nell'operare artistico di Enrica che, è da dire subito, è sempre restata fedele alle ragioni del fare pittura. Attenta conoscitrice delle tendenze dell'arte contemporanea (è stata operatrice culturale finissima nell'ambito delle arti visive del Comune di Carpi) ha tratto dalla sua esperienza più di un motivo critico per non confondere le sue ragioni con quelle di altri e soprattutto per non dimenticare le intime vissute istanze che premono e si unificano in immagini le quali non devono che a se stesse di essere originali. Piccole creature uniche che definiscono l'individualità del pittore. Per la decisione con la quale Enrica traccia i suoi ritrovamenti artistici non trovo che un riferimento poetico, quello di Emily Dickinson che tanta parte ha segnato della poesia del nostro tempo: Condizione lo sforzo pazienza con se stessi e una precisa fede.
E' il presagio della libertà di creare, ma anche la sua disciplina. Enrica Melotti conosce bene questa condizione perché fa tuttuno con le sue capacità immaginative e con la decisione che è venuta su dagli anni dell'adolescenza di studiare, cercare, conoscere. Immersi in atmosfere liriche, filtrati dalla memoria che trova consonanze armoniose, i suoi paesaggi e le sue nature morte rivelano che quella decisione è stata costante. Sono quadri che per le loro capacità interpretative richiamano le grandi lezioni artistiche della terra emiliana. Treccani coglie nel segno quando parla di «riassunzioni» dell'esperienza morandiana.
Ne è presagio quell'ombra che si allunga sul prato dei colli e quei fiori delicati che in sè raccolgono lo slancio della vita perché sono protagonisti della vita. Se il tempo è memoria, il ricordare di Enrica partecipa il vissuto dell'arte e lo partecipa con squisita serenità, fuori da ogni schema condizionante. La sua ricerca dura nel tempo e nel tempo ritrova il segno inalterato di un patrimonio artistico che le è congeniale. Lo trova quel segno inalterato, tale da congiungere il passato con il presente, perchè ha seguito e segue un suo cammino cocì semplice e così difficile che è quello di chi non dimentica, proprio perché non si allontana dalie sue ragioni e dall’ordine intellettuale che le sorregge. Testimoniare, in definitiva, significa soprattutto restare fedeli a se stessi.
- Bologna, aprile 1984 -
Giuliana Ricci Garotti
Cara Melotti, finora ho avuto modo di conoscere abbastanza poco fa sua pittura: ma quel poco ha suscitato in me qualche impressione favorevole che m’induce a indirizzarle due parole di augurio e d’incitamento in occasione di questa sua mostra reggiana. Lei dà prova di aver scelto per il suo lavoro una strada già definita, e certo non la più facile al giorno d'oggi; una via, voglio dire, che consapevolmente si allontana da ogni schema alla moda, da ogni compiacenza per le tante sollecitazioni a sfondo intellettualistico o pseudointellettualistico di corso così comune. Lei lavora dunque per conto suo, con semplicità di mezzi e di intenti, indagando dentro di sé emozioni e ragioni del suo modo di esprimersi, puntando a una interpretazione rarefatta delta realtà naturale, si tratti di figure umane, si tratti di fiori, di oggetti, oppure di angoli di un paesaggio quotidianamente dimesso.
Ma le dirò che nella mostra di oggi sono particolarmente le immagini umane a sembrarmi il punto di arrivo, perché è qui, a mio parere, che la sua vocazione tonale interviene a meglio definire personalmente i valori formali sollecitati dal tema. E' qui, insomma, che lei esprime con maggior libertà e compiutezza la sua reazione emozionale di fronte alla realtà delle cose. Queste sue figure di solido impianto, per lo più accampate in un fondo semplificato e di sobria consistenza tonale, vengono a costituire come un traslato fra la sua soggettività e sensibilità di pittrice e le ragioni proprie dell'immagine pittorica, sulla quale lei si sente tanto impegnata. Atteggiamento e risultato nei quali non ravviso né ingenuità né tanto meno spavalderia: piuttosto un'idea del fare pittura che è idea della forma coordinata a una genuina fiducia in certi contenuti estetici e insieme morali.
Di conseguenza, le mie impressioni favorevoli si convalidano su quelle sue opere dove l'assunto umanistico e i mezzi suggeriti dalla cultura dimostrano di sapersi risolvere con meno scorie nel volume in relazione allo spazio, nel tono che si fa forma nel suo involucro di aria e di luce. E vorrei ancora ricordarle che tante sono le vie per operare in arte con sentimento del proprio tempo, che formule e proposte oggi come ieri contano quello che contano: ciò che vale, io credo, è il linguaggio in quanto strumento di espressione e comunicazione di vita interiore. Se la sua visione figurativa contiene in sé, come mi pare, i termini di una ricerca artistica viva, allora questa sua mostra sarà per lei una verifica utile: è l’augurio che le rivolgo con queste osservazioni forzatamente sommarie.
- Milano, 18 aprile 1984 -
Massimo Carrà
"Studi di ragazzi" ('78 - '80)
"Studi di ragazzi": in mostra di disegni recenti (1978 - 80) alla galleria "Arcari"Enrica Melotti ha dato prova di una maturità espressiva ormai raggiunta e consolidata. C'è nel segno della sua matita, infatti, la traccia evidente di una sicurezza, di una solidità espressiva che non dipendono tanto da una mera abilità di mano (anche se di "mestiere" l'ancora giovane artista ne ha già da vendere) quanto invece da una assorta, meditata adesione poetica al soggetto; dalla robustezza, insomma, delle emozioni, dei sentimenti, dei giudizi che l'autrice esprime nel suo lavoro.
È per via di questo spessore e densità di concreti riferimenti emotivi che le sue immagini, infatti, acquistano forza persuasiva e sfuggono tranquillamente alla trappola dell'accademismo, cioè di un disegno arido, stereotipato, banalmente veristico, che è sempre pronta a scattare per chi, come Enrica, si sia prefisso di disegnare e dipingere principalmente la figura umana. Invece in lei ciò non accade e i suoi fogli sono appunto molto di più di uno "studio" del corpo e della fisionomia umana. Sono anche questo, certo, ma soprattutto essi esprimono una partecipazione, una scelta, una determinazione. Senza mai tradire la verità della rappresentazione, senza enfasi o deformazioni ingiustificate, queste sue immagini difatti esprimono qualcosa che è superiore, che è più ricco.
Il mondo e la natura si riassumono, per lei, nelle fattezze umane: l'abbandono languido di un corpo, uno sguardo di stanchezza o di attesa, l'eros che si intreccia al sentimento della morte. Tutto è lì, concretamente e riconoscibilmente presente, eppure tutto rimanda anche a situazioni, a emozioni, a dati esistenziali più generali, a considerazioni più universali. C'è una comprensione diffusa, una intelligenza e - si potrebbe dire - una "pietas" laica e complessiva per il genere umano, per il nostro destino di uomini di oggi chiamati a vivere in un mondo torbido di allarmi e di inquietudini, di contraddizioni e alienazioni inaudite. Il nucleo poetico del lavoro della Melotti è qui, in questa sua trepidante e lucida sollecitudine, in questa sua adesione sentimentale e intellettuale assieme che riesce a farsi linguaggio figurale immediato, subito convivente ed emozionante. A fronte di tanti trucchi, di tanti funambolismi concettuali di una parte della giovane pittura attuale, queste sue opere rappresentano, dunque, un contributo fresco e intenso, certamente singolare nel poco soddisfacente panorama ora ricordato, a un discorso artistico che si sforza finalmente di riportare l'uomo nell'arte e l'arte all'uomo.
- 1980 -
Giorgio Seveso
Dati semplici ed essenziali di forma e valore tonale
guidano le prime opere della Melotti, ricche di accenti squisitamente lirici e
di una espressa emozione. L'armonia carezzevole delle tinte che domina, con la
serenità di un puro abbandono spirituale, i paesaggi della prima maniera (i
verdi, gli azzurri), che ripercorrono la flessuosità di colline e vallate
appenniniche, cede nella maturità a contrasti più pensati e certamente più
sofferti, a tinte più problematiche e tormentate.
E qui emerge più che mai il travagliato lavoro di penetrazione psicologica, lo studio degli equilibri del segno e delle forme, dei toni e degli spazi. II soggetto umano ritorna fonte inesauribile di curiosità intellettuale, di interesse artistico, di amore laico e preoccupato, dove l'espressività del corpo viene cercata nella atemporalità classicheggiante del nudo. Ripercorrere la produzione della Melotti rivela un'ansia mai quietata, un confronto - ricerca continuo con la materia, col suo sentire, con la cultura. Anche il ritorno ad un tema caro, agli anemoni, alle violette intense e ai lillà, non ha più lo stesso sguardo rassicurante ed essenziale dei primi lavori: una analisi più esigente rivela lo sforzo del pensiero nel passaggio attraverso la figura, mentre anela ad una più matura sicurezza estetica.
- 1980 -
Questa mostra rappresenta una prima sintesi, operata da Mario De Micheli, tra gli oltre centoventi giovani artisti invitati ad esporre presso il “Salone dei giovani pittori e scultori”, recentemente allestito al Palazzo dell'Arte nell'ambito della Festa nazionale dell'Unità. Erano presenti in quella sede - ampiamente visitata ed apprezzata dal pubblico non solo per l'insolita opportunità di incontrare assieme un numero cosi alto di giovani protagonisti della nostra cultura visiva ma, anche, per il suo carattere di “esempio”, di indicazione, di complessivo suggerimento sul piano della politica culturale pubblica e delle sue manchevolezze verso le nuove generazioni artistiche - erano presenti, dicevo, le varie tendenze e linee di ricerca d'oggi.
Abbiamo pensato che non v'era occasione migliore di quella per scegliere ed invitare sei pittori dell'ultima generazione a continuare - con la piccola rassegna che presentiamo - il discorso aperto dalla Fondazione “Corrente” lo scorso marzo: un discorso teso ad esplicitare e ad indagare l'evidenza anche polemica di una riscoperta, di una “riappropriazione” dell'immagine come termine qualificante della comunicazione d'arte da parte delle nuove leve di operatori.
Questi sei giovani pittori d'immagine, dunque, sono tra quelli che oggi hanno consapevolmente scelto di esprimersi rifiutando le mitologie e i radicalismi estetici del gusto ufficiale, caricando il loro lavoro e i loro diversi linguaggi di impulsi alla concretezza, di tensioni a recuperare - contro l'alienazione che ci circonda - l'autentica condizione quotidiana della vita, l'esperienza contraddittoria e magari anche “banale” delle sue circostanze e delle sue sfaccettature, della sua inesauribile “nomenclatura” umana. E' un'operazione fruttuosa, vivace, attiva che, nella diversità di formazione, di intendimenti, di temperamento di ciascuno di questi giovani, permette di scorgere, appunto, lo spessore confortante e stimolante di una cultura pittorica che torna finalmente ad occuparsi dell'uomo.
- 1979 -
Giorgio Seveso
Enrica Melotti sembra una ragazza fragile e giovanissima. Anche la sua pittura può apparire esile, ma soltanto ad uno sguardo disattento. In realtà la persona e la pittura di Enrica hanno un carattere, un tono, una forza che si impongono a chi appena osservi in modo meno superficiale. Enrica Melotti espone per la prima volta a Milano. Il riferimento morandiano qui non significa maniera; per la Melotti si tratta di uno dei rari casi di riassunzione - una generazione o due dopo - di profondi motivi umani ed estetici. La natura contemplata e rifatta con essenziale semplicità, l'ossatura delle colline, le vene delle piante, portate sulla tela con quel tanto giusto di colore per esprimere la consistenza e la grazia.
La Melotti è una disegnatrice sicura. Non so se nella mostra presenterà degli studi preparatori delle tele. Ricordo alcuni grandi disegni di nudo, di taglio accademico eppure vivissimi. Rari sono gli artisti oggigiorno (come in ogni tempo del resto). Enrica Melotti è un'artista; contro le mode, fuori del suo tempo - come si dice eppure modernissima. Esagero? Ne riparleremo.
- 19 febbraio 1975 -
Ernesto Treccani
Enrica Melotti frequenta ancor giovane la scuola serale di disegno sotto l'insegnamento del pittore Ivo Voltolini di cui segue appassionatamente l'indirizzo pittorico. sono gli anni in cui si sviluppano in lei quei caratteri fondamentali della pittura-colore acquisiti dal maestro, ma che avrebbero avuto in lei ulteriori sviluppi. Diplomatasi all'Istituto d'Arte di Firenze nella sezione del pittore Grazzini, evolve il suo linguaggio pittorico, non tanto verso i caratteri del pittore fiorentino, quanto verso una visione coloristica e sensitiva della pittura, accostabile a Morandi. È su questa strada che procede tutt'ora la sottile sensibilità di questa pittrice, estranea al descrittivismo formalistico, impegnata a rendere le sensazioni più fuggenti della realtà con una pittura essenziale di solo colore, vibrante di poesia.
- 1970 -
Renzo Dotti
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